Alice: “Vi racconto i no che mi hanno fatto diventare imperfetta e gioiosa”
Prima il successo con il botto, poi una carriera di nicchia. Ma ora che torna in grande stile, Alice si confessa - di Maria Laura Giovagnini , 21 giugno 2012 - Fonte : Io Donna
Alice è bella. In jeans, camicia bianca e sneakers, è ancora la ragazza che nel 1981 incantò a Sanremo - e vinse - con Per Elisa. Alice è brava (non dilunghiamoci: ascoltate un pezzo qualsiasi). Alice è tosta: rinunciò al successo facile per una carriera sofisticata, quindi di nicchia. Ma allora Alice che ci fa alla Milanesiana 2012, dove il tema è “l’imperfezione”? «Scherza?» salta su lei, che poi si chiama Carla. Carla Bissi («Il nome d’arte lo scelse il produttore, nel 1975»). «L’imperfezione è lo stato in cui viviamo e ha un valore straordinario: ti spinge verso il nuovo, verso la crescita, nella tensione di raggiungere la perfezione».
Ma qualche studio dice che il perfezionismo è nemico delle donne: provoca ansia da prestazione, “blocca”.
Chiariamo: il perfezionismo è qualcosa di maniacale, bisogna liberarsene. Diverso tentare di raggiungere il meglio di quel che si è. La perfezione, sì, ma solo rispetto a sé. Comunque non credo sia questione di genere: ho vicino un uomo (Francesco Messina, grafico e professore all’Università di Venezia, ndr) costantemente proiettato nel dare il massimo. Lo svantaggio, per una del mio mestiere, senza scadenze obbligate? Non finiresti mai...
Non a caso sono tre anni che rimanda l’uscita del nuovo disco di inediti.
A settembre esce davvero!
Imperfetta e felice?
Imperfetta e gioiosa. La felicità è qualcosa che non dura. La gioia è un nucleo intangibile dentro di noi. Ogni tanto si addensano nuvoloni, o addirittura temporali pazzeschi, però ho imparato a relativizzare. A vent’anni hai impeto, entusiasmo, forza prorompente per realizzare quel che immagini. Con il tempo assegni il peso giusto alle cose. Oggi, per esempio, per me non è prioritario avere approvazione da parte degli altri: sono come sono, non ho niente da dimostrare. Faccio quel che mi piace. Nel mio lavoro spesso si tendeva - una volta noti - a ripetere gli stessi schemi. Atteggiamento che non mi è mai appartenuto.
Nell’84, famosa in Italia, famosa in Germania, in effetti poteva “sedersi”.
Ho fatto scelte anticommerciali ancora prima. Nel 1982 la Capitol Records mi chiamò a Los Angeles, progettavano un lancio internazionale di Per Elisa: versioni in inglese e spagnolo, promozione nel mondo per tre anni. Mi sono chiesta: a me interessa, il successo? Non so gestire quello che c’è già: non ho più una vita privata, non so chi sono. Sempre con la valigia in mano, solitudine profondissima. Ho detto di no.
No?
Perché stupirsi? Non è un vanto, infatti è la prima volta che lo racconto. Era normale per me. Non ho scelto questo lavoro per la popolarità. Ho sempre respirato musica: mio padre suonava, mia sorella pure, mia madre aveva una bellissima voce. Ho cantato per la prima volta a 15 mesi, in chiesa, davanti al presepe: ero emozionata e mi è venuto d’istinto.
E a 13 anni si è esibita in pubblico...
No, a sette. Ero in gita a San Marino e c’era il Festival dei Ragazzi presentato da Mago Zurlì. Volevo vedere il mio mito, ho sfinito papà e mamma perché mi iscrivessero. Lì un maestro ha suggerito ai miei di incoraggiarmi perché avevo talento. L’hanno fatto, e ne sono riconoscente: lezioni di canto e piano. Nel 1971 ho vinto Castrocaro, ho iniziato a ricevere anche proposte cinematografiche, roba tipo La liceale. Sempre detto “no”. Diplomata, ho preferito lavorare in uno studio d’architetti: non sapevo cosa volevo, ma sapevo con esattezza cosa non volevo. La svolta?
Forse l’incontro con il produttore Angelo Carrara: mi ha presentato Franco Battiato e il mio compagno. Fondamentale anche aver conosciuto Henri Thomasson, discepolo di Gurdjieff (il filosofo e mistico armeno, ndr): è stato il mio maestro spirituale.
In che cosa consiste l’insegnamento?
Non si può spiegare razionalmente, si muove a un altro livello. Ti risuona nel profondo. Perché uno diventa monaco? Perché un altro diventa buddista?
Lei ha cantato nelle chiese.
Sì, nel 1999 mi invitarono alla rassegna milanese Musica dei cieli. Avevo sempre vissuto il canto come forma di preghiera elevatissima ed è stato come se avessi trovato il mio posto, anche interiore. Da lì è iniziata la liberazione dal desiderio di consenso. Le insicurezze si sono dissolte.
Vola alto, Carla. Difficile immaginarla nel quotidiano.
Vola alto, Carla. Difficile immaginarla nel quotidiano.
Perché? Mi alzo presto, apro la finestra e respiro i profumi (vivo nel verde, vicino a Udine), provvedo ai nostri otto gatti. Al mattino mi occupo della casa, al pomeriggio del lavoro. Cucinare non è una priorità (non lo è nepppure mangiare, a dire il vero): Francesco lo fa centomila volte meglio di me!
Una vita lineare.
Mah, lineare... Se voglio andare da A a B, mi ritrovo sempre a C. Anche Sanremo era C. Però, posso lamentarmi? No, certo. Posso solo dire grazie alla vita.
(Che, nella sua imperfezione, a volte è perfetta).