FUORI DAL BUIO E
VERSO LA LUCE
(Recensione di ‘Before The Dawn’ - Antonello Saeli)
Quando le luci infine si abbassarono, e l’assordante
mormorio della folla cedette lentamente alla tangibile, elettrica sensazione di
grande attesa, che si poteva quasi scorgere nel suo zigzagare tra le poltrone
in sala, tutto di colpo divenne reale, come se le vite di quelle migliaia di
persone tra il pubblico avessero appena scoperto una nuova, sconosciuta ma
attesa, quarta dimensione a completare le loro incomplete esistenze
tridimensionali.
Tutti gli sguardi erano focalizzati sul palco vuoto, dove
una manciata di strumenti era ancora in attesa dei musicisti, come foglie
dimenticate tra i rami, che aspettano l’arrivo di uno zefiro che soffi e ne
apra le danze, mentre le prime ipnotiche parole della preghiera di ‘Lily’
lentamente si susseguivano dagli enormi amplificatori, afferrando gentilmente
alla gola gli ascoltatori.
D’un tratto, Kate entrò in scena, creatura di un regno
lontano, seguita dai membri della sua banda di zingari in fila indiana, e il
pubblico letteralmente impazzì.
Fu allora che mi resi conto della vera forza di quel legame
quasi religioso, forgiato tra l’artista e il suo pubblico, attraverso anni di
visione e integrità artistica, ossessiva ricerca sperimentale del suono,
surreale approccio alle liriche, e l’uso del suo più peculiare strumento: una
voce capace di sanare qualunque ferita dell’anima.
La sua voce s’innalzava alta nell’aria, perfettamente
indomita come nei suoi dischi, selvaggia e coraggiosa come ruggente felino in
una giungla di pericoli invisibili, apparentemente non timorosa del peso
psicologico di più di tre decadi di ritiro dal palco, sulle sue spalle. Un
vuoto che avrebbe potuto trasformarsi in un mostruoso buco nero, ma che nella
realtà si dissolse in un attimo, non appena la sua figura di madre terra
accolse metaforicamente il corpo del suo pubblico, le braccia aperte nel
preludio materno di un abbraccio, il sorriso prologo dell’indimenticabile
viaggio musicale a venire.
Quella voce attaccò, a volte, con l’imprevedibilità di un
predatore acquattato in attesa del momento dello scatto, salendo e scendendo i
gradini del pentagramma con l’abilità di un’equilibrista, cosciente dell’abisso
in attesa, ma che non guarda mai in basso.
Ogni brano incluso in quella prima manciata di composizioni
fu accompagnato dall’applauso di riconoscimento della folla, anche se, probabilmente,
ciascuno degli astanti avrebbe amato aggiungere i propri pezzi preferiti a quel
limitato set di canzoni.
Kate appariva rilassata, come davvero gioisse della
performance, spesso aggiungendo con grazia alle sue acrobazie vocali, movimenti
rallentati del suo corpo. A volte, inseguendo il suo riflesso scuro sulle assi
del palco, memore del più noto personaggio di Barrie, o forse persa in un gioco
d’ombre cinesi, quasi a riavvolgere il nastro della sua vita, di colpo tornata
bambina a giocare con la luce, la notte.
Il drammatico suono del bullroarer frantuma di colpo
l’atmosfera sognante delle ultime note di ‘King Of The Mountain’, preparando il
palco per il primo vero tuffo nelle acque tenebrose di ‘The Ninth Wave’, dove
la realtà diviene sogno, il sogno incubo, e l’incubo ritorna a farsi vita
reale, in un continuo gioco di cambi di ruolo e di luogo, nel tempo e nello
spazio.
La bellezza di questa suite sta nel fatto che funziona
perfettamente, sia come splendido pezzo narrativo, che come metaforico racconto
di una perdita, della terrificante esplorazione di sé, delle impossibilità
della comunicazione umana, del prendere atto delle priorità dell’esistenza.
Ma le parole non possono davvero esprimere l’incredibile
quantità d’informazioni, sia sonore sia visive, letteralmente gettate addosso
al pubblico, durante la spettacolare performance della seconda facciata tratta
dall’album ‘Hounds Of Love’.
La suite include sezioni preregistrate e filmate,
proiettate su un grande schermo, che si suppone rappresentino la realtà della
vicenda, mentre ciò che accade sul palco rappresenta il lato immaginario del
subconscio della naufraga protagonista, che fluttua in acqua durante la notte.
Ci sono così tanti livelli interpretativi di ciò che i
sensi catturano dal palco, che sarebbe davvero impossibile rendere giustizia
alla performance teatrale nella sua interezza, senza essere costretti a
tralasciare qualche importante dettaglio. In un certo senso, è come se ci si
concentrasse su qualcosa, essendo perfettamente coscienti che si perderà
qualcos’altro, nel frattempo. Quasi come a voler catturare le forme cangianti
dei cristalli colorati in fondo ad un caleidoscopio. Sai bene che quei pezzetti
di plastica si mescolano magnificamente, e cerchi disperatamente di riconoscere
forme in quei frammenti di magia, ma loro cambiano continuamente, e sei tu
l’artefice del cambiamento, che nasconde l’ironia dietro alla storia.
Kate e i suoi talentuosi collaboratori sono i creatori che
stanno dietro alla magia. Non stupisce che tutti cerchino spesso di leggere tra
le righe, perché è così che deve essere. Il lavoro di Kate ha sempre lasciato
molto spazio all’immaginazione, come se lei segretamente volesse indurre il suo
pubblico a trovare i propri percorsi creativi, a creare le proprie storie, a riconoscere
le forme nel caleidoscopio del suo genio.
Ogni aspetto di ‘The Ninth Wave’ è stato meticolosamente
intessuto sulla tela della visione di Kate. Ogni filo s’intreccia
meravigliosamente con il seguente, come nel più divino disegno d’arazzo. E questo
è forse ciò che davvero accomuna ‘The Ninth Wave’ a ‘A Sky Of Honey’, in
termini di produzione: una dettagliata fascinazione per la bellezza e il
racconto, la necessità di donare a entrambe le suite, una controparte visiva
alla loro già incantevole bellezza.
Certamente, ‘The Ninth Wave’ esplora gli oscuri recessi
della mente attraverso il proprio doloroso e, a tratti, spiazzante immaginario
di un’anima in pena. Al contrario, ‘A Sky Of Honey’ è celebrazione di luce e
vita, Natura e Arte, lungo il proprio romantico racconto di un viaggio
attraverso le emozioni dell’artista. Tuttavia, in realtà, esse non sono altro
che le due facce della stessa medaglia.
L’approccio d’avanguardia a ‘The Ninth Wave’, la sua
qualità surreale, il mix di dramma e commedia - che danzano mano nella mano
come nelle più perfette combinazioni di estremi, soprattutto nelle sezioni di
dialogo - e il visionario set scenografico, contribuiscono ad un’intensa
ricezione dell’opera, che appare come composta da un insieme d’ingredienti magistralmente
equilibrato.
I momenti più drammatici e, forse, commoventi dello
spettacolo, risultano essere quelli in cui Kate appare più vulnerabile, come
nella straziante ‘And Dream Of Sheep’, o durante ‘Hello Earth’, uno dei picchi
emotivi più alti dell’intero lavoro. Vedere il corpo di Kate trasportato giù
dal palco da una coorte di adepti Fish People, in una processione
impressionante da funerale, è un’immagine che resterà scolpita nella mia mente,
per il resto della mia vita.
La seconda parte dello spettacolo, il trionfo bucolico di
‘A Sky Of Honey’, si confronta con la visione puramente artistica di una
giornata nella vita di chi si stupisce del continuo cambiamento della luce,
mentre ogni tipo di uccello celebra gloriosamente il trascorrere del tempo, dal
primo pomeriggio al mattino seguente.
Ancora una volta, tutto è rallentato come a voler godere
pienamente dell’attimo, mentre immagini di stormi di creature dell’aria,
riempiono con grazia lo schermo.
C’è molta Italia in questa sezione dello spettacolo, dagli ovvi
riferimenti a Roma e alle liriche di ‘Prologue’, alle maschere veneziane che
ricordano il carnevale in laguna. Sarebbe interessante conoscere la reazione
degli altri spettatori a questo particolare aspetto dello spettacolo, poiché
ritengo di esserne stato colpito ad un livello diverso, per più di un’ovvia
ragione. Sì, sono italiano. Ma, ben più importante, mio padre era un pittore.
Immagino che ciò abbia dunque avuto un impatto su di me che, diversamente, non
avrei vissuto.
‘A Sky Of Honey’ è tutta piume e becchi, cinguettii e
campane, e ognuno sul palco sembra essere posseduto da questa sindrome
ornitologica, soprattutto Kate, nel suo progressivo trasformarsi anch’essa in
volatile.
Ci sono momenti di assoluta bellezza, come quelli che
mostrano frecce scagliate trasformarsi in uccelli in volo, o la presenza
poetica del modello in legno dell’artista, a tratti somigliante al Pinocchio di
Collodi. Tuttavia, ancora una volta, scegliere un singolo dettaglio non
renderebbe giustizia al resto della performance.
‘Before The Dawn’ appare come qualcosa che deve molto al
rapporto madre-figlio, non solo per il rilevante contributo di Albert dietro
alla decisione della madre di tornare sulle scene dopo una lunga assenza, ma
anche per il viscerale legame, umano e artistico, così visibile sul palco.
Albert è un giovane artista talentuoso, e deve essere stato complesso per lui
affrontare un progetto così ambizioso alla sua età. La sua voce, sebbene
piacevole e ben modulata, mostra a volte le comprensibili limitazioni di uno
strumento che sta cercando definizione, nel corpo di qualcuno che non è più un
bambino, ma non è ancora un uomo. Sono certo che apprezzeremo ancora di più le
sue performance in un futuro prossimo, quando la sua voce avrà trovato,
maturando, il proprio spazio e la propria forza.
Devo ammettere che, personalmente, avrei amato vedere Kate esibirsi
al piano in più di un singolo brano, confinato al termine dello
spettacolo. Per me, seppur innamorato delle intricate ramificazioni del
suo lavoro più sperimentale, la vera forza dell’artista sta nel legame
speciale con il suo piano. Quando Kate si siede di fronte alla tastiera e
inizia a cantare con l’anima, ogni cosa intorno a lei smette di
esistere. La sua voce e il suo piano, potrebbero rendere da soli la mia
piccola vita degna di essere vissuta, poiché si tratta di pura emozione e
amore. E questo è ciò che cerco, sebbene sia consapevole che potrebbe
non essere mai mio.
Antonello Saeli – Labyrinths of words